(Dal mensile di maggio 2012)
Solo nel cuore della città, dentro il Raccordo anulare, ci sono diecimila ettari di agricoltura. Quando lo dico nei congressi internazionali chi mi ascolta rimane allibito», racconta Carlo Blasi, ecologo e docente universitario alla Sapienza, con più di quattrocentocinquanta pubblicazioni alle spalle. Stesse facce sorprese quando ricorda che il territorio della Capitale ospita 1600 specie di piante vascolari, delle quali 1300 dentro il Gra, quando in tutta la Gran Bretagna, solo per fare un esempio, sono poco più di duemila. In realtà non ci sarebbe da stupirsi: con oltre cinquantamila ettari di superficie agricola (il 50% del territorio), Roma è il più grande comune agricolo d’Europa. E non è certo merito della sensibilità dei costruttori, o della buona politica, se la campagna del Pineto (XIX Municipio), sempre per fare un esempio, arriva fino al Vaticano. La chiave del successo sta in «un clima e un terreno eterogeneo, con una potenziale biodiversità straordinaria», spiega Blasi. Un patrimonio poco conosciuto quello dell’Agro romano, a partire da chi è chiamato a gestirne il futuro. Perché ci sono altri dati, imbarazzanti, che vanno, purtroppo, verso un’altra direzione.
Quella del “saccheggio di Roma”, che dura da decenni, senza interruzione. Basta leggere l’ultimo Censimento Istat dell’agricoltura: dal 2000 a oggi il Lazio ha perso trecentomila ettari di suolo agricolo. E colleziona altri primati: la perdita di Sau (Superficie agricola utilizzata) è cinque volte superiore alla media nazionale. Solo a Roma, il Rapporto Ambiente Italia 2011 di Legambiente ha stimato che in quindici anni (1993-2008) l’incremento dell’urbanizzazione ha portato alla cementificazione di 4.800 ettari, di cui ben 4.384 sottratti all’agricoltura (416 ettari solo di bosco e vegetazione). È andata peggio nel Comune di Fiumicino, dove l’intera espansione è avvenuta a danno del suolo agricolo. Ma è ancora più inquietante il dato che riguarda le previsioni di ulteriore sviluppo edilizio dei due Comuni: saranno inondati dal cemento altri 9.500 ettari agricoli. Non sono soltanto previsioni. Le associazioni TerritorioRoma e Ideeincorsa a gran voce chiedono che venga annullato il bando previsto dal Piano comunale per la trasformazione urbanistica delle aree agricole (per housing sociale e compensazioni , delibera 315/2008). Delle 300 aree agricole proposte dal Comune per l’edificazione, 150 sono state già valutate idonee dalla commissione urbanistica. In barba al Piano regolatore generale (Prg) vigente. L’antidoto al cemento ci sarebbe: l’approvazione definitiva del Piano territoriale paesaggistico regionale (Ptpr) che garantisce la tutela dell’agro romano. «È fondamentale riconoscere la valenza economica dell’uso agricolo delle terra», insistono le due associazioni. E ne sono convinti anche i consiglieri regionali di Sel Filiberto Zaratti e Lugi Nieri che hanno presentato una proposta di legge, attualmente depositata alla commissione urbanistica, per preservare quelle zone ancora “libere” dal cemento e dai rifiuti. «L’imprenditore agricolo non è più solo produttore ma diventa fornitore di servizi alla collettività – dicono Nieri e Zaratti – dalla difesa del suolo, alla produzione di energie rinnovabili fino alla valorizzazione dell’ambiente».
Il “cuore verde” della Capitale avrebbe un grande bisogno di scelte politiche adeguate. «È da circa quarant’anni che sono stati cancellati i servizi pubblici per l’agricoltura, come l’assistenza tecnica – denuncia Antonio Onorati, agricoltore e presidente di Crocevia – la politica lascia che il piccolo allevatore che ha cento galline e produce sessanta uova al giorno da vendere, faccia la stessa trafila burocratica dei grandi marchi». Chiudono le piccole e medie aziende e si perdono preziosi posti di lavoro: su 12.400 imprese attive nel settore dell’agroalimentare in Provincia di Roma, 1.155 sono in crisi e 1.293 in scioglimento o liquidazione. Nell’ultimo mese due aziende hanno annunciato che chiuderanno battenti; la Romana Macinazione (40 lavoratori) e lo stabilimento di Roma del Gruppo Novelli (68 lavoratori). «Abbiamo chiesto un tavolo di concertazione di settore – dice Luca Battistini, segretario generale della Flai Cgil Roma e Lazio – perché crediamo che questo problema vada affrontato immediatamente con una strategia di politiche industriali e di filiera ben precise». Dialogo con le istituzioni che secondo Battistini non esiste più: «L’agricoltura ormai da anni è un comparto per pochi intimi, ma non c’è neppure un legame territoriale fra l’industria di trasformazione e i produttori agricoli, visto che soltanto l’1% dei prodotti agricoli locali viene trasformato nel Lazio». Una perversione, se si considera che per tipologia e varietà di produzioni, il Lazio è il “riassunto” della Nazione. E che importiamo prodotti alimentari per oltre 700 milioni di euro.
«L’agricoltura fatica a rimanere forte - riconosce Alessandro Salvadori, presidente della confederazione italiana agricoltori del Lazio (Cia) - per convincere l’agricoltore a rimanere legato alla sua attività l’unica ragione deve essere il reddito». Invece, tra i costi di produzione e i ricavi, se va bene, il conto per i piccoli produttori va in pareggio. Ed è vero tanto per il latte quanto per il grano che è tornato a costare come nel 1977. «Come si fa a pensare che il prodotto, frutto del lavoro di un anno, poi non vale niente», commenta amaro Carlo Patacconi, presidente della cooperativa Agricoltura Nuova. Finiscono in sofferenza anche voci come i “diritti dei lavoratori” e la “legalità”. «Sono dieci anni che nel Lazio non si fa il contratto interprofessionale per cui si consegna il latte senza prezzo al caseificio», denuncia Patacconi. E senza regole certe non c’è un mercato trasparente, vince il più forte. «Viviamo in un sistema impazzito, all’allevatore chiediamo di abbassare il prezzo del latte che si aggira intorno ai 35 centesimi – afferma Salvadori – ma poi quando spendiamo un euro per usufruire dei bagni alla stazione Termini nessuno si lamenta». Un esempio efficace, che dovrebbe far riflettere.
Anche perché quello nell’agricoltura «è un investimento che produce posti di lavoro, aiuta le fasce deboli della società, custodendo condizioni migliori di vita: un valore che andrebbe contabilizzato», suggerisce Carlo De Angelis, presidente del Cnca del Lazio, che raccoglie diverse esperienze di agricoltura sociale. Una buona provocazione” raccolta in uno studio dalla Provinciattiva Spa nell’ambito del Progetto strategico della Provincia di Roma (di prossima pubblicazione): per calcolare il valore del territorio agricolo si è tenuto conto di un’ampia gamma di variabili, dal valore sociale, ambientale e occupazionale a quello culturale e turistico. Il risultato è eclatante: in alcuni casi il valore reale è il quadruplo di quello attribuito finora sul mercato. Oggetto di studio sono stati i consorzi e le cooperative che praticano agricoltura multifunzionale e sociale nelle aree agricole della provincia. Come la cooperativa biologica Agricoltura Capodarco a Grottaferrata. Proprio la produzione bio, nonostante la crisi, fa registrare a Roma un giro d’affari di circa cento milioni di euro l’anno. «Si potrebbe fare di più - spiega il presidente della cooperativa, Salvatore Stingo - estendendo la legge sul bio dalle mense scolastiche a quelle ospedaliere e agli uffici pubblici in genere». E poi indirizzando i bandi verso il Km 0 di qualità e ad alto valore sociale. Perché oggi la maggior parte del fresco sulle mense di Roma arriva dalla Sicilia, passa per Verona e torna a Roma. La stessa proposta arriva dal direttore provinciale della Coldiretti Aldo Mattia: «La Regione deve approvare la legge dei prodotti a km 0 – dice – come ha fatto di recente per quella sulla tracciabilità dei prodotti». Consapevoli però, che anche con la filiera corta «da soli non si vada nessuna parte - osserva Stingo - per questo vanno sperimentate forme di associazionismo tra i produttori, a patto che la politica ci aiuti con la promozione e le risorse».
Convinto che «insieme si può» è anche Giacomo Lepri, 26 anni e una laurea in antropologia. Lui, un cervello accademico prestato all’agricoltura, ha fondato insieme ad altri suoi coetanei la cooperativa Co.R.Ag.Gio e lavora come agricoltore e cuoco in un’altra cooperativa, la Co.Br.Ag.Or. Il lavoro in campagna non lo spaventa: «Fatico molto di più a dove risolvere questioni burocratiche piuttosto che stare tutta la mattina con la zappa in mano», confessa Giacomo. Il primo ostacolo da superare è l’inaccessibilità della terra. Impossibile, visti i costi, acquistarla o affittarla per chi la vuole mettere in produzione. Ma non per tutti. Sempre Provinciattiva ha calcolato, sulla base dei dati dell’Agenzia del territorio (Osservatorio dei valori immobiliari) che dal secondo semestre 2005 al secondo semestre 2010, il valore nominale degli immobili residenziali è cresciuto in media del 14,8% solo nella Capitale, mentre il prezzo dei terreni agricoli è aumentato del 25,3% . Numeri che parlano chiaro: sulle terre agricole c’è più di un appetito. E chi vuole fare agricoltura resta a bocca asciutta. La soluzione potrebbe essere quella di investire sulle terre pubbliche. Come quelle dell’Arsial, l’Agenzia regionale per lo sviluppo agricolo, solo per fare un esempio. È quello che pensa un’ampia rete di cooperative, associazioni e sindacati (TerritorioRoma, Agricoltura Nuova, Co.Br.Ag.Or., Pisacane, Co.R.Ag.Gio, Cia, Aiab e Cgil Roma e Lazio) che hanno lanciato una vertenza per strappare al degrado queste terre e dedicarle a un’agricoltura multifunzionale e sociale. Due gli obiettivi: predisporre un bando pubblico per il primo insediamento di cooperative e associazioni di giovani agricoltori su terreni agricoli proprietà di Comune, Provincia, Regione, Agenzia del Demanio e di altri Enti (e nella proposta c’è già un elenco di dieci aree, per un totale di 600 ettari); indirizzare i requisiti del bando sulla base della valutazione del progetto aziendale, dell’integrazione con forme di fruizione e servizi per la cittadinanza e della tutela delle aree interessate. Nessuna risposta, al momento, da parte delle istituzioni. Faranno bene a prestare più attenzione almeno al messaggio che arriva dall’Unione Europea: l’agricoltura deve conservare la biodiversità, preoccuparsi del ciclo dell’acqua, della rete ecologica e della qualità della vita. Insomma, se l’Italia non vuole perdere l’accesso ai finanziamenti europei, deve puntare sullo sviluppo rurale ecosostenibile. E l’Agro romano, nonostante tutto, ha le carte in regola per dare l’esempio.