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"Vita da rom", 533 sgomberi in 3 anni§Ma i microcampi sono triplicati

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«Come vivono i rom?». La signora Maria spalanca gli occhi e scuote la testa. E’ in piedi davanti alla sua casa, una baracca nascosta tra la vegetazione del Tevere e costruita con avanzi di mobili di legno e alluminio. Di fronte c’è quella del figlio, dove vivono anche «i suoi nepotini». Allarga le braccia e azzarda una risposta: «Compriamo da mangiare, cuciniamo, ci vestiamo, i nostri bambini vanno a scuola, che devo dire?». Poi sorride e aggiunge: «Come tutti, come voi ‘taliani’». Con la differenza che lei la sua casa l’ha dovuta ricostruire quattro volte. «Viene la polizia e butta giù tutto, ogni volta perdiamo le nostre cose, ma noi aspettiamo qualche giorno e poi torniamo. Dove dobbiamo andare? Questa è la nostra casa».

MICRO CAMPI E SGOMBERI - Il posto in cui abita è uno dei famigerati “micro campi” della Capitale, spesso teatro di tragedie le cui vittime sono quasi sempre bambini: 5 di loro sono morti carbonizzati tra il 2010 e il 2011. Un problema che il governo Berlusconi ha pensato di risolvere decretando, nel 2008, lo stato di emergenza nomadi. Due paroline magiche che hanno messo a disposizione del Campidoglio 34 milioni di euro. Come siano stati impiegati è un mistero per i più e chi prova a scoprirlo si ritrova imbrigliato nelle maglie strette della burocrazia capitolina. Probabile, di più non si può scrivere, che una fetta della torta la giunta Alemanno l’abbia impiegata per gli sgomberi: 533 dal 2009 a oggi. Ma senza i risultati attesi. I piccoli insediamenti erano circa 80 nel 2008 e in quattro anni sono triplicati: 259, stando agli ultimi dati della Polizia locale. Costo delle operazioni: 6.750.000 euro, secondo un dossier dell’associazione 21 luglio. Solo per le bonifiche (di tutti campi, anche quelli definiti “tollerati”), nello stesso arco di tempo ne sono stati spesi altri 7.420.000 (una delle poche cifre fornite dal Dipartimento dei Servizi sociali). Il nocciolo della questione, secondo il presidente della 21 luglio Carlo Stasolla è che «il Comune distrugge le baracche, ma non offre alternative adeguate. A volte viene proposta la casa famiglia a donne e bambini, ma quasi nessuno accetta di separarsi dal proprio nucleo familiare».

"CENTRI DI RACCOLTA ROM" - Che fine fanno i rom sgomberati? Molti di loro entrano nel circuito assistenziale del Comune e vengono dirottati nei “Centri di raccolta”. A Roma ce ne sono tre: in zona Tor Cervara, nel municipio VII in via Amarilli e su via Salaria al civico 971. Quest’ultimo è un’ex cartiera e, come scrive Carlo Stasolla nel suo libro Sulla pelle dei rom, (edizioni Alegre, 2012) «confina con un impianto dell’Ama che può arrivare a trattare giornalmente fino a 750 tonnellate di rifiuti urbani. L’aria che si respira è impregnata dalle esalazioni  provenienti dai silos di tale impianto». Le famiglie vengono collocate in cinque padiglioni di circa 350 metri quadri, privi di sufficiente aereazione e senza pareti divisorie. Alcuni, per assicurarsi un minimo di intimità, si arrangiano alzando reti metalliche rivestite di stracci, coperte e fili di nylon. I servizi igienici sono insufficienti: un bagno ogni 20 ospiti. «Ho vissuto lì per tre mesi – racconta Alex – la mattina quando mi svegliavo a volte non potevo nemmeno lavarmi la faccia perché dovevano fare la disinfestazione». D’altronde «non è un albergo a 5 stelle!», ha sottolineato il vicesindaco Sveva Belviso durante un’intervista a SkyTg24. Non lo è, infatti. Anche se il Comune ci ha speso, solo nel 2011, ben 1.847.355 che diviso per il numero di ospiti (circa 350), fa 440 euro al mese. Quanto l’affitto di una stanza, o di un appartamento se si pensa a un ipotetico nucleo familiare e si moltiplica la cifra per 4.

I CIRCUITI DELL'ILLEGALITA' - Il binomio casa-rom nella Capitale continua a essere un tabù. La stessa Belviso in un’altra occasione lo ha detto chiaramente: «Ai rom non spetta una casa». Per loro, al massimo, ci sono “i villaggi della solidarietà”, mega campi edificati in genere oltre il Raccordo, in ogni caso lontani dai centri abitati. Delle città nella città, alcuni li definiscono “non luoghi”. «In posti così – fa notare Ulderico Daniele, ricercatore dell’Università Roma Tre – è naturale che si sviluppino circuiti di illegalità». Ecco allora che molte “regole” vengono stabilite dai residenti. E quasi mai la convivenza è pacifica. Un gruppo di rom bosniaci sgomberati da Tor de’ Cenci in estate, ad esempio, è fuggito da La Barbuta dopo un paio di settimane. Hanno denunciato di ricevere minacce ed estorsioni da altri rom residenti. «Ci hanno chiesto 20mila euro per abitare qui», racconta uno di loro. Così sono tornati con le roulotte nello spiazzo di via Pontina 601, finché il campo è stato chiuso e loro hanno dovuto fare marcia indietro e tornare a Ciampino. «Li proteggeremo – aveva assicurato il vice comandante della Polizia municipale Antonio Di Maggio a Paese Sera– nessuno farà loro del male». Così non è stato. Alcuni operatori sociali che lavorano nel campo hanno riferito che, al suo rientro, il gruppo di bosniaci ha dovuto pagare una tassa di 5mila euro agli estorsori. «Non solo – spiega un operatore – uno dei rom  è stato anche picchiato pesantemente». Nonostante a La Barbuta, come in altri  “villaggi attrezzati”, sia presente la vigilanza: un servizio su cui il Campidoglio ha investito nel 2011 altri 2.438.198 euro.

IL CASO CESARINA - Al “villaggio attrezzato” di via Cesarina numero 2 è dedicato ampio spazio nel rapporto “Diritti rubati”, dall’associazione 21 luglio, una realtà molto attiva e accreditata. Cinquemila metri quadrati di superficie, di proprietà di Propaganda Fide (Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli), in cui sorgono uno accanto all’altro 40 nuclei abitativi (containers, roulotte e case mobili) per un totale di 181 persone e 36 nuclei familiari, appartenenti a tre comunità rom provenienti da Romania, Bosnia e Montenegro. «Dormiamo tutti e quattro in un letto – racconta una donna rumena - Il mese scorso sono venuti gli altri due figli che ho ed eravamo in sei nella roulotte. Quando piove troviamo le lumache dentro la roulotte». Non va meglio per i servizi igienici. «Ci sono 4 bagni che funzionano per 200 persone, e 100 sono bambini!», lamenta un altro intervistato. L’acqua calda c’è solo tre volte a settimana e per circa tre ore, secondo il rapporto. E si formano lunghe file di persone in attesa di potersi lavare. Tra le testimonianze raccolte dall’associazione e trasmesse al Dipartimento dei Servizi sociali per le necessarie verifiche (affidate, come ha dichiarato a paesesera.it il direttore del Dipartimento, Angelo Scozzafava, alla Polizia municipale) figurano anche quelle relative al pagamento, non dovuto, di una quota fissa mensile, 50 euro, per avere l’allaccio all’energia elettrica.

LA BARBUTA - Ma, casi limite a parte, la vita nei mega campi non è facile per nessuno. Violetta, 28 anni e sei figli, è stata trasferita a La Barbuta da via del Baiardo: «Qui stiamo male – racconta - siamo nel nulla, è come essere in carcere a Rebibbia», mentre lo dice indica una telecamera. « L’altro giorno – continua – la mia bambina aveva la febbre alta, ma non mi hanno fatto entrare con la macchina e ho dovuto portarla in braccio per quasi 500 metri». Dylan ha vent’anni, una moglie, una figlia di pochi mesi e un diploma da cuoco: «Ho sprecato due anni della mia vita – dice – avevo un lavoro in un ristorante a Ponte Milvio, ma qui che faccio? Senza macchina non posso arrivare fin laggiù». Per ospitare i cugini deve registrarli su un foglio che poi va spedito via fax al Dipartimento dei servizi sociali. «Ti sembra normale? – domanda – è come essere in prigione». 

CASTEL ROMANO - Un isolamento simile lo vivono anche gli ultimi rom sgomberati da Tor de’ Cenci. Centottanta bosniaci trasferiti prima nell’ex fiera dell’Eur e poi in un campo messo in piedi dal Comune in fretta e furia a Castel Romano, dove vivono già circa mille persone. «Sono stati sradicati da un territorio in cui abitavano da 15 anni – denuncia Valerio Tursi di Arci Solidarietà – per giunta in un campo attrezzato, declassato a “tollerato” dall’attuale giunta. Il Comune ha abbattuto 55 container, pagati con i soldi pubblici». Sulla vicenda sono arrivate anche le proteste di Caritas e Comunità di Sant’Egidio, insieme a quelle del ministro per la Cooperazione Andrea Riccardi e del cardinale Augusto Vallini. Come vivono ora i rom? «Ci hanno buttati qui come animali – dice Asko – con i rubinetti che perdono, la recinzione che balla e i cinghiali che la notte danno testate contro i container». L’alternativa? Il sindaco Alemanno l’ha prospettata già nel 2008: «Vorrei ribadire un concetto: questi sono nomadi? E se sono nomadi prendono e se ne vanno». Le parole sono importanti. Perché se sono rom, e non nomadi, possono anche decidere di restare. E allora, forse, bisognerà cominciare a pensare anche a loro semplicemente come cittadini.

(Foto di Giordano Pennisi)


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