In un luogo imprecisato, trent’anni dopo l’apocalisse, un gruppo di sopravvissuti cerca di ricostruirsi una vita lottando contro oscure sette di monaci predatori, presenze inquietanti nei boschi e la sempre più massiccia scarsità di cibo e acqua. Fuori dal suo rifugio, in un viaggio oltre i confini della città, troverà (forse) un mondo migliore. Un futuro non proprio rassicurante quello presagito nel suo lungometraggio d’esordio – Hope (ma il titolo non inganni: il film è italianissimo) da Daniele Ciferri, nato a Castelnuovo di Farfa (in provincia di Rieti) 28 anni fa. Dove resta ben poco, tra violenze e rassegnazione, in un mondo in cui nulla più si crea (per prima cosa i figli) né si produce. Ma dove sopravvive, miracolosamente, la Speranza. “Quella che muove i 12 protagonisti di questa storia, tutti tra i 20 e i 40 anni – racconta il regista a Paese Sera– uniti nella ricerca di un luogo dove poter vivere meglio”. Come a dire: pur nello sfascio generale (ogni riferimento alla realtà è tutto fuorché casuale) “si può continuare ad esistere se c’è la volontà di rischiare e rimettersi in gioco”. Cosa che ha fatto lo stesso Ciferri dirigendo un film di genere così poco frequentato in Italia con 5mila euro di budget (la distribuzione è ancora da trovare), una troupe di amici e attori giovani che si sono prestati a lavorare gratis. Location “sotto casa”, perché parte di Hopeè stata girata proprio a Castelnuovo di Farfa, mentre per gli altri luoghi del film ci si è spostati di poco, rimanendo nella stragrande maggioranza della lavorazione dentro al perimetro del territorio laziale.
Una condizione dettata dalle scarse risorse economiche o da un’esigenza creativa?
A dire il vero la location è venuta prima del film. Nel paese dove sono nato c’è una vecchia fungaia abbandonata che conserva al suo interno un piccolo appartamento: un luogo ideale per raccontare una storia. Così è venuta l’idea del rifugio dal mondo di fuori, dove è ambientata la prima parte del film. Si può dire che tutto sia nato da qui. Poi il resto è venuto dopo.
Quali sono le altre location? Hai voluto connotarle, renderle in qualche modo riconoscibili o meno?
Dopo la provincia di Rieti abbiamo lasciato la Sabina per Roma, dove abbiamo girato in un vecchio ospedale psichiatrico in via della Marcigliana (zona Bufalotta) la scena della fuga dei ragazzi dall’attacco dei predoni che vogliono saccheggiarli. Poi siamo stati nel Monte Soratte, dove ho trovato un bunker-rifugio perfetto per la nostra storia. Tra le altre località c’è anche Fara Sabina, Collevecchio e Sant’Oreste. Mentre il ‘mio’ Eden l’ho trovato alla Cascata delle Marmore, vicino a Terni. L’ambientazione del film è volutamente vaga, non ho cercato alcun riferimento ad un luogo preciso o facilmente individuabile. Volevo che lo smarrimento dei personaggi e l’assenza di punti di riferimento geografici fosse la stessa dello spettatore.
Vengono alla mente due precedenti. Uno più nobile: Lost. L’altro un po’ meno: L’isola dei famosi. Qualche richiamo?
Non ci siamo ispirati ai reality, mentre i rimandi alle serie tv americane, Lost per primo, sono inevitabili. È necessario imparare da chi fa meglio. Ma inutile pensare ad esplosioni ed effetti speciali: qui il gioco è tutto psicologico.