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Donna n. 4, con la Danco in una Roma§frenetica con l’ossessione del cibo

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Un corpo dalla sessualità impercettibile si trascina verso casa, schivando tutto ciò lo ci circonda, inchiodato da un’ossessione: mangiare sempre meno, rifiutare il cibo sino a provarne disprezzo, perdere peso e illudersi di stare meglio. E poi c’è Roma, la città che ogni giorno mescola tutto in un’unica portata, da consumare rigorosamente in piedi nell’arco massimo di un’anonima pausa caffè. Se c’è un mondo in cui contestualizzare la non-vita di Donna n. 4, potrebbe vagamente assomigliare a questo. Una dimensione difficile da definire, che verrà messa in scena, per la prima nazionale dal 16 al 21 aprile al Teatro Vascello, da Eleonora Danco, che dello spettacolo è produttrice, regista e attrice. Il soggetto infatti è un monologo che la Danco ha scritto per la raccolta Storie di cibo racconti di vita, curata da Davide Rampello e Marco Amato per Skirà edizioni, commissionata da Expo Milano 2015. Di Donna n. 4, e dell’atto unico Nessuno ci guarda (pubblicato da minimum fax) che verrà interpretato nella seconda parte dello spettacolo, abbiamo parlato con l’attrice, scoprendo che ciò che racconta e mette in scena non è poi così alieno da tanti piccoli frangenti della nostra quotidianità.

Quando e come nasce Donna n. 4?
Il soggetto mi è stato commissionato da Davide Rampello per l’Expo Milano 2015, che avrà come tema quello della nutrizione del pianeta. Nel momento in cui mi è stata proposta questa cosa, sono stata investita da tantissimi input. Di questi tempi, elementi come il nutrirsi, l’amore e l’odio per il cibo rappresentano infatti delle fonti di ispirazione enormi. Ho però deciso di non trattare la materia né dal punto di vista giornalistico, né sul piano della denuncia. Perciò ho pensato di disegnare i tratti di questa donna che in realtà potrebbe essere anche un uomo, perché la sua sessualità quasi non si percepisce.

Qual è la natura di questo personaggio e che rapporto sviluppa con il cibo?
Donna n. 4 è una persona che vuole cambiare il suo corpo attraverso il cibo, per sbarazzarsi della memoria e rimanere senza ricordi. Il mangiare per lei diventa una condizione di vita: quando mangia non deve sbagliare, ed è così che il cibo diventa un metronomo dei suoi errori. “La marmellata e i Kellog’s - dice continuamente a se stessa - non sono altro che trappole”. E ancora, “la sera devi riuscire a resistere all’aperitivo, riuscire a non ingoiare farro sbilenco come i denti dei neonati”.

La sua metodicità è una corazza che le consente di difendersi dal mondo esterno?
Lei cerca di lasciarsi addomesticare da questa metodicità che le dovrebbe permettere di trattenersi dal mangiare, ma poi puntualmente finisce per scontrarsi con gli odori della realtà. “La prima cosa che vedi entrando in una città - dice - è un posto per mangiare”. “Anche in libreria, sotto la metro, nei musei: ovunque sappi che se vuoi puoi mangiare. È molto chiaro che qui si muore, ma non di fame”. E poi se vuoi prendere un cappuccino al bar all’una e mezza, lo farai nella Roma della scamorza alla piastra”. Il suo non è però un personaggio che giudica, ma che si limita semplicemente ad osservare come ci siamo ridotti.

Come sarà portare in scena questo personaggio?
Questo testo è un monologo pensato e scritto per essere un racconto. Ed è molto difficile trasferire questa cosa in teatro, specie se per farlo hai a disposizione solo il tuo corpo. Attraverso un ritmo particolare, incalzante, spero però di riuscire ad abbattere le distanze tra queste due forme espressive, vale a dire il teatro e la scrittura.

Lo spettacolo proseguirà con Nessuno ci guarda. Cosa dobbiamo aspettarci?
Nessuno ci guarda parla dei condizionamenti ricevuti nell’infanzia in relazione alla vita adulta. C’è una donna che si sveglia da un incubo per andare a lavorare, ma non riesce a uscire di casa. Corre, salta, si arrampica sulle pareti, rotola dappertutto. Insomma, è l’opposto di Donna n. 4, soprattutto perché il suo corpo in questo caso non è la voce del conscio ma è sospeso nell’inconscio. In comune hanno il fatto di essere due personaggi tormentati che non comunicano con l’esterno. In un certo senso, entrambi sono un simbolo del mio modo di fare teatro.


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