Solida certezza della scena musicale italiana, Simone Cristicchi è ormai un cantautore adulto, uno dei pochi "fabbricanti di canzoni" in grado - come mostrato nell'ultimo festival di Sanremo - di far coesistere grazia e ironia, impegno e ricerca, ricordi dal passato e illuminazioni sul presente. E nel suo quarto lavoro, quello di una maturità ampiamente raggiunta, il bizzarro ricciuto musicista che voleva essere come Biagio Antonacci, ci dà accesso al suo intimo "Album di famiglia", zeppo di storie universali ed emozioni personali, sullo sfondo della sua amata-odiata città, Roma, e con una strada davanti sempre traboccante di umanità, a partire dal concerto-evento previsto il 24 aprile all'Auditorium.
Quale spirito ha portato a questo disco così importante nella tua carriera e al suo significativo titolo, "Album di famiglia"?
Una volta trovato il titolo e il concetto generale, ho progettato di registrare le nuove canzoni in un contesto che potesse accoglierle nel migliore dei modi, nella comodità della mia casa, costruendo appositamente lo studio dove ho lavorato. Comporre e incidere nell’intimità della vita quotidiana ha donato a queste tracce un’atmosfera di grande spontaneità, una maggiore delicatezza, la ricerca di un suono complessivo coerente e morbido come un divano. Per finire l’opera, ho affidato la copertina del cd a mio figlio Tommaso, che ha 5 anni. Proprio un album “a impatto zero”: il mio piccolo capolavoro fatto in casa, come la pasta sfoglia.
Insieme alla "domesticità", troviamo anche i consueti temi d'urgente attualità e coscienza civile. Ti stai affermando, a tuo modo, come "cantautore impegnato".
Mi viene in mente il brano che chiude il disco che si intitola “Il Sipario”, che ho scritto per il Teatro Verdi di Poggibonsi, uno dei tanti che in questo momento storico non ce la fanno a sopravvivere ai tagli alla cultura e alla crisi generale. “Dove non si mangia con la poesia, ci si abbuffa di realtà”, dico nel testo. Poi c’è “Magazzino 18” che è anche il titolo del mio nuovo lavoro teatrale, in cui racconto l’esodo dagli istriani fiumani e dalmati del 1947, argomento che ancora oggi viene tristemente strumentalizzato dalla politica. L’ho scritta senza pensare alle polemiche che avrebbe attirato, ma immedesimandomi nel figlio di un esule morto di malinconia. Esuli, ma anche immigrati, come nel caso del brano “Cigarettes” dove un documento del Congresso americano del 1912 ci parla degli immigrati italiani negli Stati Uniti. Brutti, sporchi e cattivi. La memoria, a volte, fa brutti scherzi.
Hai chiamato a far parte di questo "Album di famiglia" anche illustri amici e colleghi, una tua abitudine consolidata.
In ogni album ho scelto con cura gli ospiti, anche per questione di stima e amicizia. Amici veri ce ne sono pochi in questo mondo di sorrisi finti: rari soprattutto gli amici disposti a gioire di un tuo successo! Alessandro Mannarino lo seguo dagli esordi, ed è una delle poche vere novità del panorama musicale italiano, un mix tra Pasolini e Manu Chao che mi ha conquistato al primo ascolto. Insieme ci siamo divertiti a cantare “Le sol Le mar”, un mega-spot dell’Italia fatto dagli immigrati che vedono il nostro paese come La Mecca. Con Nino Frassica conduco da due anni la trasmissione “Meno male che c’è Radio 2”, e per me, oltre che un amico, è un genio della comicità e un folle maestro di rigore.
E tra una canzone e l'altra, hai voluto anche raccontare la triste vicenda dell'attrice Laura Antonelli.
“Laura” è a mio avviso la canzone più intensa del disco, e inizialmente avrei voluto presentarla a Sanremo. Poi ho pensato che un'esposizione così vasta della sua storia personale avrebbe procurato dei fastidi alla signora Antonelli. Dopo aver visitato per caso quella che per tanti anni è stata la sua villa nei pressi di Cerveteri, ho approfondito la sua triste vicenda, la scure delle malelingue, il dolore che provoca la gogna mediatica e il lunghissimo iter della giustizia italiana. È una canzone che parla della violenza sulle donne, e di come una stella, in pochissimo tempo, possa sprofondare nell’abisso, per colpa di un proprio errore, ingigantito da un’opinione pubblica che non perdona.
I due brani sanremesi, "Mi manchi" e "La prima volta (che sono morto)", sembrano voler rappresentare i tuoi due lati contrapposti, uno romantico e l'altro più scanzonato.
Si, in effetti sono due anime che da sempre convivono in me. In particolare “Mi manchi”, una canzone deliziosa che avrei voluto arrivasse in finale, perché rappresenta al meglio questo disco. L'altro è invece un omaggio al teatro-canzone di Gaber e Jannacci, un inno alla vita dal sapore dolce-amaro. Certo, dopo una turnè di quasi 300 date nei teatri, tornare nel circo sanremese è stato un po' uno shock! Ma quando ho saputo dell’invito di Fabio Fazio sono stato molto contento, visto che ad oggi non esiste una vetrina più importante di Sanremo per presentare un disco.
Ad accompagnare i brani, ci sono due video affascinanti, entrambi girati dal regista Mauro Mancini e ambientati in due location molto particolari di Roma e dintorni.
Inizialmente avevo contattato Mauro per realizzare insieme una specie di trailer-video del nuovo album. Poi le sue idee mi sono sembrate così convincenti e forti, che ho voluto sottoporle alla mia casa discografica. Nonostante siano dei video low-budget, credo che siamo riusciti a creare una bellissima atmosfera in entrambe le canzoni, con una fotografia di alto livello e delle ottime idee, anche emozionanti. Mauro Mancini è davvero un poeta dell’immagine, e si è sempre dimostrato molto sensibile e fantasioso sul set: e poi ci siamo anche divertiti molto! Le location dei video sono state fondamentali come non mai. Per “La prima volta” è stata un’esperienza a dir poco surreale passare 12 ore dentro a un cimitero, quello di Marino. Abbiamo portato musica e allegria in un luogo dove regnano silenzio e dolore. Una giornata per tutti indimenticabile, soprattutto per il sottoscritto, che si è ritrovato davanti alla propria lapide, con tanto di foto e nome! Nel caso di “Mi manchi” ho suggerito io di girarlo al Museo Agostinelli di Dragona, un luogo magico dove sono stati raccolti oggetti di ogni tipo, un vero e proprio museo della vita quotidiana fino agli anni ’70. Ho scoperto questo posto perché cercavo una vecchia sirena a manovella della seconda guerra mondiale, per un mio spettacolo. Entrandoci dentro, ci si sente avvolti da un’aria quasi da favola. Gli oggetti raccontano sempre qualcosa di noi, soprattutto quando l’assenza diventa malinconia. In questo senso, ogni oggetto rappresenta una persona che non c’è, che ci manca, che vorremmo proteggere.
C'è anche molta Roma all'interno del disco. Che rapporto hai maturato negli anni con la Capitale?
Mio nonno Rinaldo era di Rione Monti e mia nonna di Trastevere, il romanesco sento di averlo nel sangue. L’anno scorso sono diventato membro onorario del Centro Studi Gioachino Belli, e il romanesco è al centro del mio monologo in ottave “Li romani in Russia” di Elia Marcelli. Eppure, 5 anni fa ho deciso di andare a vivere lontano dalla metropoli: ho trovato nei Castelli Romani il mio rifugio, e non tornerei mai indietro. La grandezza di Roma mi spaventa, odio quella turistica coi negozi di souvenir e i menu preconfezionati. Probabilmente amo una città che non è mai esistita, che non c’è più. Oggi ho trovato il mio habitat tra strade di pietra, laghi e il profumo del pane per le stradine del paese dove abito
Quali sono i tuoi prossimi impegni dal vivo, a partire dalla data romana?
Dopo le ultime date dello spettacolo “Mio nonno è morto in guerra”, tornerò a cantare nella mia città dopo tre anni, il 24 aprile all’Auditorium Parco della Musica di Roma. La Sala Sinopoli ospiterà questo evento speciale dal titolo “Concerto di Famiglia”, in cui saliranno sul palco con me oltre ai miei fidati musicisti, i Funk Off, la più potente e inimitabile marching band italiana, e gli amici del Coro dei Minatori di Santa Fiora. Saremo più di trenta sul palco per festeggiare l’uscita del mio quarto album e l’inizio della turnè. Credo sarà una data memorabile, o almeno lo spero per il pubblico. A fine ottobre invece tornerò al teatro, con il musical-civile sull’esodo istriano dal titolo “Magazzino 18”, prodotto dal Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia per la regia di Antonio Calenda: per me il corrispettivo di una “laurea”!