Racconta di essere cresciuto a ‘pane e Kubrick’, eppure non si definisce un avanguardista. Specie sul set, dove si sforza di rimanere il più possibile fedele a uno stile di regia classico e sobrio, che in gran parte risente del tocco eterno di chi ha fatto la storia del cinema italiano e non. Da Sergio Leone a Michelangelo Antonioni e da Orson Welles a Hitchcock, nei suoi lavori se ne può scorgere qualche traccia. È così per L’ultimo nastro, corto d’esordio noir premiato nel 2009 come Miglior Opera Prima al Potenza International Film Festival. Ed è così anche per i successivi e, a onor del vero, per Oltreluomo (2011), il dramma con Pietro De Silva che, esattamente un anno fa, gli è valso la nomina allo Short Corner di Cannes. Eppure chi ha imparato ad apprezzarlo, sa che della vena classica di Nicola Ragone, materano, classe 1986, in teatro rimane ben poco. Perché quello diventa il contesto all’interno del quale osare, sperimentare e forzare le regole. Nel tentativo, evidente, di condurre il pubblico direttamente al cuore della pièce, catapultarlo dentro lo spettacolo e renderlo protagonista. Insomma, un taglio netto di regia, di cui il giovane regista ha già dato ampia prova nello spettacolo di "Eyes Tragedia della Vista". Andato in scena al Teatro dei Documenti poco più di un anno fa (era aprile del 2012), costituisce il primo atto di Eyes, la trilogia - quarto lavoro teatrale in ordine di tempo -, che questo sabato vedrà approdare l’esordiente Ragone al Teatro Lo Spazio di Roma con il secondo capitolo della serie: “Eyes Open Space”.
Tratto dal dramma “I ciechi” di Maurice Maeterlinck, Eyes è più di uno spettacolo. Come l’hai concepito e perché una trilogia?
“Eyes nasce più di un anno fa, quando ho deciso di riprendere in mano il testo di Maeterlinck, che racconta della messa in scena di uno spettacolo i cui protagonisti sono ragazzi non vedenti e ipovedenti. Proprio la particolarità di questi personaggi e dunque la cecità e quello che rappresenta, come la possibilità di vedere qualcos’altro con altri occhi, di sentire quel che non si vede, mi ha suggerito lo spettacolo. Che è pensato come una trilogia, un work in progress di denuncia politica e sociale che, attraverso i personaggi, gli spazi e la luce, vuole di volta in volta instillare nel pubblico degli interrogativi”.
Di quali influenze risente lo spettacolo?
“Ce ne sono varie. Sicuramente risente dell’influenza del teatro di Giorgio Strehler. In Eyes per esempio ci sono chiari rimandi al sipario di ferro che lui ha utilizzato nella messa in scena de I Giganti della Montagna del ’66. Basti sapere che qui non c’è platea e che tutto viene sancito dall’apertura e dalla chiusura netta del nostro sipario di ferro, che non banalmente è la saracinesca del teatro. Poi c’è molto anche di Antonin Artaud e del suo teatro della crudeltà, soprattutto per quanto riguarda la concezione degli spazi e il lavoro con gli attori. Inoltre, poiché per natura Eyes presuppone un’interazione con il pubblico, il riferimento va senza dubbio a tutto il filone del teatro sperimentale degli anni ’60 fino ad arrivare alla body art di Marina Abramovic”.
Questo sabato vedremo il secondo atto di Eyes, Open Space appunto. Cosa c’è di diverso dal primo spettacolo?
“Praticamente quasi tutto. Posto che si prosegue nel lavoro di ricerca delle paralisi fisiche e psichiche dei personaggi e che rimangono i monologhi delle attrici, con la possibilità esclusa in precedenza di vederli tutti e cinque, quest’anno giochiamo molto di più con il fattore ‘spazio’: il teatro che ci ospita esteticamente è molto meno pulito del precedente, il Teatro dei Documenti. E proprio questo suo essere così imperfetto mi ha suggerito un’ambientazione più decadente. Giochiamo molto di più su spazi abbandonati e dimenticati”.
Anche quest’anno ci sarà la voce off di Pietro De Silva…
“Sì, con una differenza. L’anno scorso la sua voce accompagnava e istruiva il pubblico, quest’anno, invece, visto che abbiamo deciso di sperimentare l’open space, quindi lo spazio calpestabile dal pubblico, ho avvertito la necessità di inserire non una voce extradiegetica che conduce il pubblico nello spazio, ma una voce che diventa soundtrack e parte integrante dello spazio, una voce che sembra rimanere imprigionata in un luogo che non ha tempo e non ha nemmeno uno spazio ben definito”.
Un’altra figura chiave, non solo nello spettacolo, è quella dei cosiddetti Nasi. Cosa rappresentano?
“Detto che in queste ultime settimane hanno praticamente guidato la campagna promozionale di Eyes, nello spettacolo fungono da vettori per il pubblico, orientandolo nello spazio e dettandone i tempi. In fondo, Eyes è un dramma a tappe e i Nasi sono un po’ l’orologio di questo spettacolo, oltre che personaggi metafora di un sistema. Nella fattispecie, nascono da una mia suggestione partita da un testo di Gogol, che si chiama appunto “il Naso”. Simbolo di un sistema imperfetto, i Nasi di Eyes sono un po’ degli attori brechtiani, che si muovono in modo molto schematico e netto. Non parlano e non fiatano, perché al posto del capo hanno una maschera a forma di naso, simbolo di un sistema che presenta un’anomalia”.
Eyes non finisce con Open Space. Cosa succederà nel terzo ed ultimo capitolo che vedremo a ottobre?
“In Empty Space la sperimentazione andrà oltre lo spazio e si concentrerà soprattutto su un utilizzo ancor più particolare della luce. E qui mi piacerebbe inserire De Silva proprio come personaggio. Certo, servirà un bel colpo di scena finale, ma qui mi fermo”.
Eyes a parte, sappiamo che in questo periodo sei molto impegnato su un altro set. Vuoi darci qualche anticipazione?
“In realtà, per scaramanzia, ne parlo raramente. Posso solo dire che si tratta del set del maestro Ettore Scola, che dopo dieci anni di silenzio, è tornato all'opera con il suo ultimo film, un lavoro su Fellini. Io ho avuto la fortuna di poter partecipare a questa esperienza, facendo il backstage ed essendo coinvolto anche come attore. L’esperienza è di grande rilievo, è importantissima e non posso che trarne degli insegnamenti. Purtroppo mancano solo due settimane alla chiusura”.
Quand'è che potremo vederlo sul grande schermo?
“Questo lo saprei pure, però non lo posso dire”.