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"La grande bellezza", meraviglioso trip§Roma maestosa scenografia del nulla

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CANNES - Il sacro di un canto gregoriano immerso nella meraviglia del Fontanone del Gianicolo e il profano del microfono di una guida turistica. L'attrazione ipnotica per il mondo lussuoso e inconsistente di feste su terrazze "off-limits" e la repulsione disturbante per quello stesso circo di nani, ballerine, arrivisti e cinematografari che "preparano una fiction sul Papa e poi una su un tossico che si redime". E leggono Proust, "ma anche Ammaniti". La grande bellezza di Paolo Sorrentino – attesissimo e già controverso sesto film del regista che ha debuttato ieri in concorso a Cannes – è una cornucopia stracolma di qualità estetica e satira feroce, un trip stordente di immagini mozzafiato della città più bella del mondo e una discesa negli inferi del nulla cosmico dei sedicenti intellettuali sinistroidi.

"L'ARMATA" FRANCESE - Prima di svelarsi alla Croisette – che gli ha tributato due tornate di applausi – La grande bellezza è passato sotto le forche caudine di una stampa francese inusitatamente aggressiva. Capace di appiccicare la feroce etichetta di "invitato invadente" al regista italiano più conosciuto all'estero, e addirittura di domandarsi se "c'è qualcosa di più brutto di un film di Sorrentino", alludendo all'idea che il Festival più prestigioso del mondo abbia selezionato questo film a scatola chiusa. Un vero e proprio attacco, forse non gratuito e motivato dal timore che il cinema transalpino si veda sfilare qualche Palma dal cineasta partenopeo. Fatto sta che La grande bellezza sbatte in faccia allo spettatore oltre due ore di immagini suadenti e ipnotiche – ennesimo esempio di uno dei più limpidi talenti registici che il nostro cinema possa vantare - con il racconto dell'avventura esistenziale di Jep Gambardella, ovvero un meraviglioso Toni Servillo nei panni di un giornalista 65enne che ha firmato un unico romanzo decenni fa e campa "di rendita" tra festini, interviste surreali e salottismo.

RACCONTARE IL VUOTO STORDITI DALL'ECCESSO -  Jep si muove tra "Sprazzi inconsistenti di bellezza e il brutto imbarazzo dello stare al mondo". Il suo unico fedele amico è un dolente Carlo Verdone con occhiali e baffetti, ometto di spettacolo che galleggia tra un party e l'altro e non riesce ad emergere. L'unica persona che fa battere il cuore a Jep è una donna bellissima ma non più giovane: una Sabrina Ferilli che "non è portata per le cose belle" e a cui, purtroppo, la sceneggiatura di Sorrentino e Contarello ha riservato un percorso monco che castra una sorprendente prova d'attrice. In questo circo che attinge da modelli alti come Fellini, Céline e Flaubert, e bassi come la musica dance commerciale e la volgarità Cafonal raccontata ogni giorno da Dagospia, si staglia la magniloquente bellezza di Roma e l'obiettivo letterario più audace e impossibile, quello di raccontare "il niente". E' proprio quello che cerca di fare Paolo Sorrentino con grandissima ambizione e meritevole coraggio. Il suo film sovrasta, appare eccessivo e barocco (e a tratti pecca effettivamente di autocompiacimento), ma la vacuità si può raccontare soltanto riempiendola di ogni orpello. Per stordirsi con il nulla è necessario accumulare oggetti, persone, simboli appariscenti e inutili. E così la galleria desolante – fascinosa e respingente - creata da Sorrentino passa in rassegna il cardinale che sa offrire ai fedeli solo ricette di cucina, la performer trasgressiva che si sfascia la testa contro l'acquedotto romano e poi non sa affrontare le domande taglienti di Jep, che vuole stanare la montatura. E ancora la direttrice di giornale nana, ma di alta statura professionale, e l'amica (Galatea Ranzi) a cui Jep non risparmia uno spietato (e meraviglioso) monologo in cui mette a nudo la falsità del suo personaggio. Presunta intellettuale di sinistra, femminista e "impegnata", non è altro in realtà che una che ha regalato sesso all'università, ha pubblicato con una piccola casa editrice vicina al partito che la vede in prima fila come "donna di" un uomo di potere. Insomma, quel centrosinistra che ama le poltrone e l'ipocrisia più della politica. E per cui il regista aveva in mente un riferimento molto preciso nella realtà. La grande bellezza è un film-mondo, che ritrae nello stesso tempo lo spaesamento di un momento storico preciso e uno stato d'animo universale, atemporale, eterno di vacuità morale ed emotiva rispetto alla giostra che ci gira vorticosamente intorno. Peccato solo per l'inutile sforzo di dare un passato sentimentale a Jep: il suo innamoramento perduto dell'adolescenza è un passo falso di didascalismo e artificiosità in un'opera grandiosa, metafisica, evocativa ed estremamente raffinata. Promossa a pieni voti - seppure con qualche riserva - dunque, questa Grande bellezza. Ce ne fossero di registi italiani capaci di questa visione.


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