E' morto per “sindrome da inanizione”, ovvero per malnutrizione, Stefano Cucchi, il geometra romano arrestato il 15 ottobre 2009 per droga e morto una settimana dopo all'ospedale Sandro Pertini. Così i giudici della III Corte d'assise nelle motivazioni della sentenza in cui in sostanza fanno proprie le conclusioni del collegio peritale. Le motivazioni arrivano a circa tre mesi dalla lettura del dispositivo con cui il 5 giugno scorso il collegio ha condannato per omicidio colposo il primario del Pertini Aldo Fierro e i medici Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite, Silvia Di Carlo e Rosita Caponetti (per il solo reato di falso ideologico), e assolti gli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe, nonché gli agenti della Penitenziaria Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici.
I PERCHE' - Nelle 188 pagine dell'atto i giudici affermano di “dover condividere le conclusione cui è giunto il collegio peritale, fondate su corretti, comprovati e documentati elementi fattuali cui sono stati esattamente applicati criteri scientifici e metodi d'indagine non certo nuovi o sperimentali, ma già sottoposti al vaglio di una pluralità di casi e al confronto critico degli esperti del settore”. La “sindrome da inanizione”, è, infatti, “l'unica in grado di fornire una spiegazione dell'elemento più appariscente e singolare del caso, e cioè l'impressionante dimagrimento cui è andato incontro Stefano Cucchi nel corso del suo ricovero”.
Secondo la Corte, non possono essere condivise le tesi delle difese secondo la quale il giovane sarebbe stato condotto alla morte da un'improvvisa crisi cardiaca, ma neanche quelle dei consulenti delle parti civili secondo cui il decesso si sarebbe verificato per le lesioni vertebrali. “Anche questa tesi – si legge nella sentenza – presta il fianco all'insuperabile rilievo che non vi è prova scientifico-fattuale che le lesioni vertebrali abbiano interessato terminazioni nervose”.E' da escludere che condotte descritte per i medici condannati “siano volontarie; le stesse si prospettano piuttosto come colpose, e cioè contrassegnate da imperizia, imprudenza, negligenza sia per la omissione della corretta diagnosi, non avendo in sanitari individuato le patologie da cui era affetto il paziente, in particolare tenuto conto del suo grado di magrezza estrema, sia per avere trascurato di adottare i più elementari presidi terapeutici che non comportavano difficoltà di attuazione e che sarebbero stati idonei ad evitare il decesso, sia per avere sottovalutato il negativo evolversi delle condizioni del paziente che avrebbero richiesto il suo urgente trasferimento presso un reparto più idoneo”. Questo un passaggio della motivazioni della sentenza della III Corte d'Assise di Roma che si è pronunciata sulla vicenda della morte di Stefano Cucchi.
LE MOTIVAZIONI - I fatti descritti nella formulazione del capo d'imputazione “non consentono di ravvisare il reato di abbandono d'incapace, del quale non ricorre alcuno dei presupposti oggettivi né soggettivi, ma quello di omicidio colposo. E' sufficiente fare richiamo, per escludere la ricorrenza della fattispecie di abbandono d'incapace, alla circostanza che praticamente tutti i testi esaminati hanno negato che Cucchi, quantunque gravemente sofferente, fosse portatore di una ridotta capacità psichica”. Il reato formulato originariamente dai pm Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy è nettamente escluso dalla corte perché "tutti i testi esaminati nel corso del dibattimento hanno negato che Stefano Cucchi, quantunque gravemente sofferente, fosse portatore di una ridotta capacità psichica. Ci si limita a citare - si legge nella motivazione - il congruente e lucido contenuto della lettera da lui scritta il giorno 20 ottobre e diretta a un volontario della Comunità Ceis, sia pure con incerta grafia dovuta alla scomoda posizione cui lo obbligava il dolore alla schiena, nonché quanto da lui riferito" ad una volontaria "nella loro conversazione del pomeriggio del 21 (alla donna egli aveva tra l'altro il numero di telefono del cognato, mostrando di ricordarlo perfettamente)".
IL DECRETO - Il caso Cucchi, scrivono poi i giudici, "esula completamente dallo schema indicato dal cosiddetto 'decreto Balduzzi' (la legge del 2012 secondo cui il medico che si attiene alle linee guida non risponde penalmente per colpa lieve, ndr.) non risultando in alcun modo applicate linee guida e buone pratiche alle quali le difese degli imputati hanno fatto solo un generico e vago riferimento". "Ritenere che la 'sindrome da inanizione' fosse una patologia di difficile individuazione da parte dei sanitari della Struttura Protetta - si legge ancora nelle motivazioni - è contraddetto (come riportato anche dai periti) dalla circostanza che si trattava di medici che operavano con pazienti detenuti i quali, sovente, sono del tutto disinteressati alla propria salute (come, ad esempio, la maggior parte dei tossicodipendenti) e non collaborativi, o addirittura pongono in essere condotte autolesionistiche, come lo sciopero della fame".
LE PERCOSSE -“E' legittimo il dubbio che Cucchi, arrestato con gli occhi lividi (perché molto magro e tossicodipendente) e che lamentava di avere dolore, fosse stato già malmenato dai carabinieri” prima del suo arrivo in tribunale. Lo afferma la III Corte d'Assise nelle motivazioni della sentenza emessa il 5 giugno scorso con cui ha condannato sei medici e assolto tre infermieri e tre agenti della polizia penitenziaria, nell'ambito del processo per la morte di Stefano Cucchi.
“Non è certamente compito della Corte indicare chi dei numerosi carabinieri che quella notte erano entrati in contatto con Cucchi avesse alzato le mani su di lui, e tuttavia sono le stesse dichiarazioni dei carabinieri che non escludono la possibilità di prospettare una ricostruzione dei fatti diversa da quella esternata da Samura Yaya”, il testimone gambiano che riferì di aver sentito un pestaggio nelle celle del tribunale di piazzale Clodio e di aver raccolto lo sfogo di Cucchi che gli mostrò una gamba sporca di sangue.
"C'e' da dire - spiega la Corte - quanto agli accadimenti nella caserma, che è indubitabile che nulla di anomalo si era verificato al momento dell'arresto e fino alla perquisizione domiciliare. Se qualcosa di anomalo si era verificato, ciò può verosimilmente collocarsi nel lasso di tempo che va tra il ritorno dalla perquisizione domiciliare (verso le due di notte) e l'arrivo della pattuglia automontata (intorno alle 3,40), dovendosi ragionevolmente escludere che atti violenti fossero stati posti in essere dal carabiniere che chiamò il 118 perché Cucchi non stava bene o dai carabinieri della pattuglia che si erano limitati ad effettuare il trasferimento dell'arrestato da una caserma all'altra". Per la Corte d'Assise "in via del tutto congetturale potrebbe addirittura ipotizzarsi che Cucchi fosse stato malmenato dagli operanti al ritorno dalla perquisizione domiciliare atteso l'esito negativo della stessa laddove essi si sarebbero aspettati di trovare qualcosa, mentre il giovane aveva mantenuto una comprensibile reticenza circa il luogo dove realmente abitava".
SUPERTESTE NON ATTENDIBILE - Non è attendibile il teste Samura Yaya, compagno di cella di Stefano Cucchi che riferì di un presunto pestaggio di cui l'italiano sarebbe stato vittima da parte degli agenti della polizia penitenziaria. Così la III Corte d'Assise ricordando come durante un sopralluogo del novembre 2009 lo stesso cittadino africano "dichiarava di non riconoscere i luoghi in cui era stato detenuto la mattina del 16 ottobre 2009 e di non essere comunque in grado di riconoscere la cella in cui era stato trattenuto, rifiutandosi di sottoscrivere il verbale". La testimonianza di Yaya, "se pur fornita dell'innegabile riscontro dei pantaloni sporchi di sangue che Cucchi si sarebbe arrotolato fino al ginocchio per mostrargli le escoriazioni prodottegli sulle gambe dalle percosse degli agenti di polizia penitenziaria, è in aperto contrasto con talune dichiarazioni rese da alcuni carabinieri e dall'infermiere Ponzo che dimostrerebbero che il giovane aveva subito delle violenze prima di giungere nelle celle di piazzale Clodio". Yaya "ha 'sentito' dei calci; ha 'sentito' un corpo caduto a terra; ha 'sentito' il trascinamento di un corpo. In conclusione - spiega la Corte - puo' dirsi con certezza che lo stesso abbia percepito soltanto un parlare concitato tra Cucchi e tre agenti della penitenziaria, un tramestio e il pianto di Cucchi". Il collegio poi ricorda le dichiarazioni dei genitori di Stefano che riferirono come "nel momento della perquisizione domiciliare il giovane non presentava segni di patita violenza" e che "nel momento della convalida dell'arresto presentava evidenti segni di violenza. Più arduo è stabilire quali fossero le condizioni del giovane nella fase immediatamente precedente, cioè quando, effettuata la perquisizione domiciliare, ancora si trovava nella custodia dei carabinieri".
La versione di Samura Yaya - scrivono i giudici - è altresì in contrasto con quanto dichiarato da altri testi, che riportano 'de relato' parole asseritamente pronunciate dallo stesso Cucchi, e cioè che a ridurlo in quelle condizioni sarebbero stati i carabinieri ovvero 'una caduta per le scale'". In conclusione per la Corte d'Assise "la ricostruzione di alcune fasi o momenti di quanto avvenne la mattina del 16 ottobre del 2009 nelle celle sotto la palazzina B, giungendo a comprendere chi c'era nel 'sistema delle celle' nel momento in cui Samura descrive le percosse inferte a Stefano, consente di ritenere provato che nel momento indicato da Yaya come quello del pestaggio, nelle celle si trovavano soltanto lo stesso Samura e Cucchi".
Per il collegio una grande incongruenza è rappresentata dal fatto che "non si vede perché gli agenti di custodia, avendo avuto l'opportunità di portare Cucchi in un luogo in cui 'non è noto cosa sia occorso', non lo abbiano pestato in quel luogo e in quel momento, attendendo invece di farlo nelle celle dove potevano essere 'sentiti' da altri detenuti (quantomeno da Salura Yaya) e/o da altri operanti in attesa delle convalide (e quindi, oltre che dagli operanti che dovevano prelevare Cucchi, anche dal carabiniere che aveva proceduto all'arresto di Yaya)". Contrastano, infine, con Yaya le parole del detenuto Vilbet Lamaj che, arrivato a piazzale Clodio la mattina del 16 ottobre 2009 alle 8.30, quando ancora era all'esterno delle celle, disse di aver sentito la voce "di un uomo che si lamentava dicendo 'sto male'" e che, poco dopo, fatto ingresso nella sua cella, aveva sentito la stessa voce di qualcuno, che da una cella poco distante dalla sua, si lamentava invocando 'aiuto, sto male'".
DAI MEDICI SCIATTERIA - L'attività dei medici della struttura protetta dell'ospedale Sandro Pertini condannati per la morte di Stefano Cucchi “è segnata da trascuratezza e sciatteria”. Così la III Corte d'Assise nel motivare le condanne per omicidio colposo di cinque dei sei medici finiti sotto processo: due anni al primario Aldo Fierro; un anno e quattro mesi ciascuno per Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo. “Non si intende sottovalutare la difficoltà per un medico di interagire nell'approccio terapeutico – si legge nella sentenza - con un paziente tossicodipendente dall'adolescenza, epilettico, celiaco, in condizioni di impressionante magrezza, angustiato dalla sofferenza fisica e per di più detenuto alla prima esperienza, ma certamente ben poco è stato fatto per cercare di interagire con lo stesso”.
Quanto alla posizione del primario, questi “non ha adempiuto a nessuno dei poteri-doveri che gli competevano in quanto dirigente sovraordinato. Al contrario, sia pure a causa dei suoi numerosi concomitanti impegni professionali, il cui svolgimento non lo esimeva comunque dal vigilare sull'operato dei medici, egli si è negligentemente disinteressato del paziente”. L'atteggiamento non pienamente collaborativo di Cucchi, per il collegio non vale "ad esimere i medici da responsabilità per non essere stati in grado di formulare tempestivamente una corretta diagnosi e porre in essere delle terapie adeguate alla gravità del caso”. In merito alla posizione degli infermieri finiti sotto processo ma tutti assolti, “non era nelle loro facoltà di sindacare le iniziative dei medici alle quali risultano essersi attenuti”.